La nascita dei blocchi in calcestruzzo è cronologicamente successiva alla diffusione del cemento, e risultato di una necessità concreta: quella di poter disporre di robuste componenti artificiali da sostituire alla pietra ovunque questa non fosse disponibile o facilmente reperibile. Questi materiali avevano inoltre l’obiettivo di rimpiazzarne altri, meno convenienti dal punto di vista economico.
Sostenibili e caratterizzati da eccellenti prestazioni, i blocchi in calcestruzzo hanno progressivamente preso il posto di numerosi altri materiali tradizionali assumendo, in breve tempo, identità e dignità proprie.
Per quanto riguarda l’economicità, questi elementi costruttivi offrivano il vantaggio di non richiedere particolari macchinari né accorgimenti complessi, ma semplicemente miscelatori di cemento e inerti, apparecchiature per la fase di getto e casseforme. Queste ultime rappresentavano, agli albori dei blocchi in calcestruzzo, l’aspetto più problematico: per poter garantire una produzione di elementi in serie, tutti identici, era infatti necessario costruire tanti stampi quanti erano i blocchi da realizzare – un passaggio che richiedeva l’impiego di notevoli risorse economiche e di tempo. Tale criticità venne inizialmente ovviata utilizzando il metodo ad estrusione.
Tuttavia, si comprese presto che era possibile immettere nell’impasto di cemento una quantità minore di acqua– ossia di passare da una consistenza “fluida” del materiale, che richiedeva inevitabilmente uno stampo in cui essere contenuto, a quella di una “terra umida”, senza alterarne in modo sostanziale le prestazioni. Si iniziò così a confezionare impasti che, stampati o estrusi, non necessitavano di casseforme per sostenersi fino alla completa asciugatura.
Sebbene non si conosca con certezza l’autore di questa importante scoperta, possiamo ricondurre l’origine delle prime blocchiere per calcestruzzo agli inizi del Novecento, con produttori diffusi un po’ ovunque: dagli Stati Uniti alla Germania, ma anche dalla Francia all’Italia. In quest’ultimo caso, un buon esempio è rappresentato dai milanesi Rosa e Cometta che, nel 1907, fondarono nel capoluogo meneghino un’azienda che costruiva proprio macchinari per la produzione di cemento in blocchi: la Rosacometta.
All’epoca erano disponibili due tipologie di blocchiere per il calcestruzzo: a mano e a motore. Si basavano su un processo comune: le casseforme, smontabili, venivano riempite di calcestruzzo con l’ausilio di un badile. Il materiale veniva poi costipato utilizzando martelli manuali o motorizzati, ed estratto dallo stampo dopo che quest’ultimo veniva aperto.
La produzione del blocco iniziava ovviamente con la definizione dello stampo da utilizzare tra quelli disponibili: di forma particolare per gli elementi costruttivi ornati o decorativi, liscio per tutti gli altri. Le finiture speciali – come le superfici granigliate o colorate in pasta – venivano invece ottenute versando impasti particolari nella cassaforma e, successivamente, eventuali anime che completavano il riempimento. Dopo la consueta costipazione (stavolta rigorosamente manuale), il blocco in CLS veniva estratto dalla forma e rasato sulla faccia superiore. Peraltro, lo stampo smontabile rendeva possibile ottenere motivi o scanalature anche sulle facce laterali.
Il semilavorato estratto dalla cassaforma veniva riposto su un piano in ghisa e trasportato all’area di stagionatura, dove finiva di asciugare.
Si stima che la produzione giornaliera con questo tipo di attrezzature si attestasse sui trecento blocchi in calcestruzzo se manuale, e sugli ottocento circa se motorizzata (ossia con l’ausilio di pestelli montati su un albero a camme).
Per incrementare il numero di blocchi prodotti si moltiplicavano ovviamente le blocchiere disponibili, che comunque richiedevano, per essere utilizzate, la presenza di ben due operai: il primo per riempire la cassaforma di calcestruzzo, il secondo per estrarre il blocco e disarmare la forma.
Anni Quaranta: è il momento della blocchiera a vibrazioni
Sebbene il sistema spiegato finora offrisse il vantaggio di poter essere organizzato ovunque, incluso nei pressi dei cantieri, c’erano comunque ostacoli oggettivi da tenere in considerazione:
- Le lavorazioni erano molto lente.
- Il carico di lavoro richiesto agli operai era estremamente gravoso.
- Gli inerti da utilizzare dovevano necessariamente avere granulometria molto fine per agevolare il processo di costipazione.
- La tipologia formale e concettuale dei blocchi in calcestruzzo era limitata.
- I prodotti erano dotati di un massimo di due fori.
- La svolta avvenne in Germania alla fine degli anni Quaranta, con l’invenzione di un nuovo tipo di blocchiera che utilizzava le vibrazioni sia per costipare meglio il calcestruzzo versato nella cassaforma sia per evitare che l’impasto si attaccasse ad essa.Si trattava di un sistema davvero ingegnoso, che di fatto ovviava a diverse criticità riscontrate fino a quel momento: non soltanto incrementava la produzione giornaliera di blocchi in calcestruzzo, ma bypassava anche la problematica di dover smontare e rimontare la blocchiera ogni volta che la forma doveva essere estratta da essa. Il blocco veniva infatti estratto utilizzando a un metodo molto simile all’estrusione, con lo stampo intero che si “alzava” dal materiale costipato una volta che i pestelli motorizzati avevano completato il loro passaggio.
- A partire da questa nuova attrezzatura nacquero altri due tipi di blocchiera:
- Fissa, o statica: in cui il supporto era movimentato da catene che liberavano i blocchi appena formati.
- Semovente: in cui i blocchi venivano sformati su un apposito pianale che traslava a fine ciclo.
La scelta tra l’uno e l’altro tipo derivava essenzialmente dalla disponibilità di spazio e macchinari: la blocchiera semovente era più diffusa in Italia, quella statica nella natìa Germania.
Come funzionano le moderne blocchiere per calcestruzzo
Le blocchiere fisse e semoventi esistono ancora, anche se ovviamente in versione del tutto automatizzata. Entrambe le tipologie si compongono di una tramoggia per lo scaricamento del calcestruzzo che, tramite un portello, viene convogliato nell’apposito cassetto. Quest’ultimo si sposta all’altezza dello stampo utilizzando apposite guide e il controstampo, o pestello, cala sul materiale, comprimendolo e facendolo vibrare fino a processo ultimato.
Per quanto riguarda i movimenti meccanizzati trasmessi alle varie parti, che seppur con i dovuti limiti tecnologici cominciarono a diffondersi già a partire degli anni Cinquanta, la tecnica oleodinamica (ossia idraulica) è ancora oggi ampiamente utilizzata dalla maggior parte dei produttori. Il suo impiego su larga scala iniziò alla fine degli anni Sessanta, con l’invenzione di quadri di controllo elettromeccanici e l’adozione di PLC, rivelandosi sia estremamente affidabile sia conveniente dal punto di vista economico.
È quindi probabilmente a quest’epoca che possiamo ricondurre la genesi dei blocchi in calcestruzzo vibrocompresso così come li conosciamo oggi.
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